APOLOGIA DELLA SCRITTURA
Quale bisogno profondo si cela dietro il semplice fatto del prendere in mano una penna, o molto più di frequente, oramai, piegarsi su una tastiera del computer cercando parole e concetti che riempiano un vuoto, rivolgendosi ad un pubblico immaginario.
Spesso mi sento dire per quale motivo scrivi, racconti storie, quale necessità immediata senti, a quale imperativo categorico rispondi ? Non certo il denaro. Forse la fama? E soprattutto per quale motivo ti senti autorizzata a raccontare storie, ad attribuire ai tuoi personaggi un’umanità complessa, contraddittoria, o fallace?
Il denaro non riempie le tasche di chi scrive, a meno che non si raggiunga una notorietà tale, ma è privilegio di pochi. Allora forse per vedere il proprio nome su una copertina, come per gli attori che vivono della luce sul palcoscenico? Potrebbe essere, ma in realtà è qualcosa di più PROFONDO. Nessuno ti chiede perché vivi? Perché respiri? Ecco scrivere è vivere. Una vita stratificata oserei dire. Una vita che contiene al suo interno molte vite. Una forma di scommessa con la morte. Attraverso i personaggi delle mie storie estendo la mia esperienza e la porto al limite estremo. Nietszche ha detto: “Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante“. Il caos è composto da una quantità indefinita ma IMPORTANTE di materiale inascoltato, di umanità che ha bisogno di una voce, di un canale attraverso il quale esprimere tutto il SOMMERSO.
Viviamo tempi in cui l’esposizione attraverso i SOCIAL, trasforma ognuno di noi in maniera fittizia, illusoria, in un personaggio. Esprimiamo la nostra opinione, siamo al centro di un flusso continuo di informazioni nel quale quello che esprimiamo oggi, già dopo qualche ora è inevitabilmente dimenticato da un nuovo post, da una nuova fotografia, da un nuovo messaggio. I social masticano i nostri pensieri e ci illudono di essere protagonisti. E’ un gioco per adulti, in cui i più abili comunicatori hanno il sopravvento sugli altri. C’è un’abilità in tutto ciò ma il risultato finale è UNICAMENTE la soddisfazione del proprio EGO.
Prima parlavo del sommerso. E mi riferivo invece, alle voci di dentro. Non sono quelle di cui parlava Eduardo De Filippo. C’è una dimensione RELIGIOSA nel raccontare storie.
Se si cerca la definizione di religione sul vocabolario TRECCANI al terzo riferimento si trova questa indicazione: figurato, letterario o elevato:” VENERAZIONE, PROFONDO RISPETTO, DEVOTA OSSERVANZA.
Chi scrive si deve porre nei confronti della storia con una forma di profondo rispetto e devozione per le miserie o i trionfi dei suoi personaggi, li deve soltanto ascoltare e riportare il loro pensiero. La parabola della vita raccontata è già un risarcimento per chi scrive. Il migliore risarcimento. E poi l’AMORE muove la mano di chi scrive. Si tratta di un’amore non ricambiato per un’umanità talvolta distratta, confusa, infelice, indifferente. Ma si sa l’amore non ricambiato è, da sempre, una forma alta d’amore che i maggiori poeti e letterati hanno sempre narrato. Un dono. Un dono dal quale non aspettarsi riconoscenza.