La banalità del male oltre la Storia
Hannah Arendt nasce ad Hannover nel 1906 da una famiglia ebrea protestante, e studia filosofia a Marburgo diventando allieva di Heidegger. Negli anni trenta si trasferisce a Parigi, per poi fuggire a New York nel 1941. Qui pubblica : ” Le origini del totalitarismo”. Quando si apre il processo al funzionario nazista Adolf Eichmann nel 1961 viene inviata dal settimanale ” New Yorker” a Gerusalemme. Da questa esperienza ne deriverà un celebre scritto che innesterà per molti anni polemiche e discussioni: ” La banalità del male” pubblicato nel 1963.La Arendt è un’ebrea che ha criticato sia la ghettizzazione del mondo ebraico che l’integrazione con il rischio della perdita di identità.
L’autrice in questo scritto ha analizzato il concetto e la natura del male e il percorso che ha compiuto nei carnefici durante il periodo dell’Olocausto. Molti nazisti, irreprensibili uomini di famiglia, con concetti ben saldi del bene e formule educative trasmesse ai loro figli, si sono poi comportati da feroci killer sanguinari durante lo sterminio degli ebrei. Come è potuto albergare un concetto del male così radicato e profondo negli stessi uomini, si domanda la filosofa tedesca nel suo trattato?
E’ quindi giunta ad un ragionamento che ritiene che il male non sia qualcosa di radicale, di estremo all’animo umano ma viceversa vi sia una certa contiguità con un ambiente sociale e politico in cui la capacità di ragionamento del singolo viene lentamente annullata, sopraffatta, per cui l’uomo diventa strumento di un nuovo codice etico. La dimensione del male non è più percepita come un evento eccezionale ma come addirittura “banale”. Un aforisma della Arendt che mi ha colpito particolarmente : ” Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”.
Il pensiero e la dignità dell’individuo sono due concetti sui quali fa leva un regime e un’ ideologia predominante che fa avvertire bisogni e necessità agli individui come impellenti, inserendo di conseguenza nell’uomo concetti di emarginazione e sradicamento qualora l’individuo non aderisca ad una formula precostituita.
Il pericolo è sempre presente, non è un dettato di un’ ideologia totalitaria, ma è la deriva di un paese in cui sempre più modelli di omologazione impongono stili di vita, senza che l’individuo sia più in grado di prendere in mano la sua vita e di costruirla su principi e modalità sganciati da modelli imposti. La dimensione del ” male” quotidiana, banale è ancora più pericolosa in quanto sempre latente. Il concetto espresso dalla Arendt, non è così lontano e tantomeno unicamente legato allo sterminio degli ebrei, anzi è un pericolo anche nelle attuali società che appaiono “addormentate”.
” L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani” dice la Arendt.
Nella dimensione quotidiana la “banalità del male” si concretizza nel subire acriticamente imposizioni lavorative che comportano il superamento dei valori precedentemente ritenuti inderogabili, che si possono esemplificare nella creazione di un burocratismo fine a se stesso, teso a ledere la libertà degli altri individui e finalizzato al solo predominio del proprio io sugli altri.